09/06/2010 - GEOLOGIA. UNA MISSIONE NEL PACIFICO INDAGA LA CATENA SOTTOMARINA SHATSKY: «E’ CAPACE DI SCONVOLGERE DI COLPO IL CLIMA»
"Sono i supervulcani la causa delle improvvise
estinzioni di massa"
VALENTINA ARCOVIO
Sono i principali indiziati di molte estinzioni di
massa. La loro forza distruttiva potrebbe aver cancellato specie su
specie, compresi i nostri lontani antenati Neanderthal. Eppure,
nonostante il ruolo dei supervulcani possa essere stato determinante
per il nostro pianeta - e probabilmente potrebbe esserlo anche in
futuro - per la scienza la loro origine, il loro numero e i loro
comportamenti futuri restano ancora largamente sconosciuti.
Molti
si nascondono nelle profondità della Terra, a cui solo di recente ci
si sta avvicinando. I più recenti e interessanti indizi sono saltati
fuori dai dati della spedizione «Iodp» - «Integrated Ocean Drilling
Program» - sulle «bombe a tempo» sottomarine dell’Oceano Pacifico. Per
studiare questi giganti enigmatici un team di geologi ha perforato una
grande catena montuosa risalente a 145 milioni di anni fa, a 1500
chilometri a Est dalle coste del Giappone: si tratta della gigantesca
Shatsky Rise, delle dimensioni della California, che è una delle
maggiori concentrazioni al mondo di supervulcani. E’ così che sono
riusciti a raccogliere una serie di informazioni importanti, che
potrebbero avvalorare la tesi delle periodiche estinzioni di massa
causate da mega-eruzioni.
Gas e particelle
«I
supervulcani emettono enormi quantità di gas e particelle
nell’atmosfera», spiega Rodey Batiza della sezione di Geoscienze Marine
della «National Science Foundation» americana, che ha cofinanziato la
ricerca. Le conseguenze sono, secondo lo studioso, molto diverse da
quelle delle eruzioni «standard» e possono rivelarsi devastanti per gli
equilibri degli ecosistemi: «Basta pensare - spiega - all’improvviso
aumento dei gas a effetto serra e ai bruschi cambiamenti nella
circolazione delle correnti oceaniche». Alterazioni drammatiche
indotte, per ogni «evento», da milioni di chilometri cubici di detriti,
con effetti scioccanti per un pianeta delicato come il nostro. Perché
per essere classificati come supervulcani questi giganti - che sono
caldere collassate - devono avere la capacità di eruttare enormi volumi
di magma che, una volta sputati fuori, sono in grado di cambiare di
colpo le condizioni del clima globale.
Una delle teorie più
affascinanti - e oggi più accreditate - riguarda il supervulcano del
lago Toba, nell’isola di Sumatra, in Indonesia: si ipotizza che circa
74 mila anni fa abbia precipitato l’intero pianeta in un vero e proprio
«inverno nucleare», durato diversi anni, seguito dalla scomparsa a
catena di molte specie vegetali e animali. Protagonista di un’altra
catastrofe è stato invece un supervulcano italiano: nella Piana
Campana, infatti, è stata individuata un’enorme caldera circolare,
vicino ai Campi Flegrei, che si estende da Posillipo fino a Bacoli. Per
metà, oggi, è nascosta dai palazzi in cui vivono 500 mila napoletani e
per l’altra metà dal mare della baia. «Ma all’incirca 39 mila anni fa
la sua eruzione ricoprì di spessi depositi tutta la Campania, parte dei
quali sono stati ritrovati a migliaia di km di distanza, anche in
Russia, e alcuni antropologi pensano che possano aver provocato la
rapida scomparsa dell’uomo di Neanderthal, che non sarebbe riuscito a
sopravvivere alle variazioni ambientali innescate dall’immane
esplosione», racconta Giuseppe de Natale, il ricercatore
dell’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto di Geofisica e Vulcanologia
che coordina un ambizioso progetto di studio sulla zona.
Per
cercare di comprendere meglio ciò che è successo in passato e per
tentare di stilare previsioni future, De Natale e il suo gruppo di
ricerca penetreranno con una sonda il sottosuolo dei Campi Flegrei e
arriveranno a 4 chilometri di profondità, soltanto un paio di chilometri
sopra il punto in cui si pensa si trovi la camera magmatica. Un vero e
proprio viaggio al centro della Terra che dovrebbe iniziare nel
prossimo autunno. Per i ricercatori si tratta di un'avventura
straordinaria: l’obiettivo è tentare di fare luce sulle catastrofi che,
in varie epoche, hanno ciclicamente sconvolto il pianeta e anche sulla
genesi - tuttora controversa - delle ere glaciali.
Ma le sorprese
non finiscono qui. Un altro supervulcano nostrano è stato individuato
l’anno scorso nelle Alpi Occidentali, tra le vallate e i rilievi della
Valsesia. Si è trattato - osservano gli studiosi - di una scoperta
eccezionale, perché questo «mostro» fossile è il primo che si trova
esposto all’osservazione, dalla cima ai piedi. «Grazie a questo
ritrovamento potremo adesso svelare le parti più misteriose di questi
apparati vulcanici», spiega Silvano Sinigoi, professore di petrografia
all’Università di Trieste, che insieme con il geologo americano James
Quick, pro-rettore all’Università di Dallas, ha firmato la scoperta
sulla rivista «Geology». «Il lento processo dinamico che ha provocato
il sollevamento e la formazione delle Alpi – osserva - ha rivoltato la
crosta terrestre, facendo emergere tutto l’apparato magmatico che un
tempo si trovava sotto il vulcano, fino a una profondità di circa 25
chilometri. Così, adesso, possiamo osservare e studiare parte del
sistema di alimentazione di un supervulcano, come non avevamo mai
potuto fare in precedenza».
Milioni di anni faIl
supervulcano della Valsesia è molto antico: era attivo - dicono le
prime rilevazioni - intorno a 280 milioni di anni fa. Anche le sue
spaventose eruzioni potrebbero avere mandato in tilt il clima del
pianeta, sprigionando «nubi» di materiale magmatico nell’atmosfera.
Adesso, fortunatamente, «riposa», disteso su una caldera di una
quindicina di chilometri di diametro. «Indagarlo - conclude Sinigoi -
non significa solo capire parte della storia della Terra, ma
comprendere i processi che scatenano le eruzioni e che, per esempio nel
nostro Paese, possono verificarsi da un momento all’altro».
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