Se pensate che gli animali non abbiano sentimenti, il vostro istinto vi tradisce
Savana del Kenia. I due piccoli sono bloccati su un albero basso e i due leoni si avvicinano pregustando un facile spuntino. L’adulto, pur non essendo loro parente, corre davanti ai leoni e cerca di scacciarli gridando. Per sua fortuna, i felini non devono avere troppa fame, e si allontanano, permettendo ai tre di mettersi in salvo.
Se ora diciamo che adulto e piccoli erano umani, ecco che subito si parlerà di un “atto di eroismo”, ma se riveliamo invece che l’episodio, raccontato dal primatologo Robert Sapolsky, riguarda dei babbuini, l’eroismo verrà messo da parte. Si tenterà piuttosto di trovare una spiegazione “adattativa”, che giustifichi cioè il mettere a rischio la propria vita con un vantaggio nella riproduzione.
Antropomorfizzare, spiegare i comportamenti animali con sentimenti e intenzioni umane, viene considerato uno dei peggiori peccati in etologia.
Gli animali, secondo un punto di vista che risale ad Aristotele, sono poco più che automi mossi a istinti, dotati al massimo di emozioni elementari.
Anche famosi ricercatori moderni, come il biologo Richard Dawkins, vedono il mondo vivente come un luogo brutale, dominato solo dall’imperativo della diffusione dei propri geni. Al più, estendono questo modo di vedere anche agli umani.
Bene, nella comunità scientifica c’è chi si è stufato di questo dogma. Nel secondo libro
Second Nature (Edizioni Macmillan, pp 242 dollari 27) lo zoologo americano Jonathan Balcombe afferma, citando esperienze e testimonianze, che molte specie animali sono capaci quanto noi di provare emozioni e sentimenti. Se non ce ne siamo resi conto, in parte è perché ci fa comodo sentirci superiori e in parte è perché le capacità mentali degli animali si esprimono in modi e campi diversi da quelli, come il ragionamento o creatività, nei quali eccelliamo noi.
Per esempio, ci siamo accorti dell’eccezionale memoria fotografica degli scimpanzé solo quando è stato organizzato un test in cui si dovevano premere in sequenza dieci quadretti, seguendo i numeri che vi apparivano sopra per pochi secondi: i nostri cugini ci hanno surclassato, battendo anche il campione inglese di memorizzazione.
Ma più che l’intelligenza e la memoria degli animali, pure indispensabili per raggiungere alti livelli di socializzazione, Balcombe sottolinea la loro misconosciuta capacità di provare emozioni complesse come la generosità, gratitudine e persino compassione, smentendo i luoghi comuni sulla “brutale natura”.
Gli aneddoti abbondano. Prendiamo la gratitudine: quando dei sub liberarono una megattera impigliata in una rete nel mare davanti San Francisco, l’animale non si allontanò prima di aver strusciato delicatamente il proprio muso contro ognuno dei salvatori. E racconta il primatologo Frans De Waal, che l’aver permesso alla scimpanzè Kuif, depressa dopo aver perso due figli, di adottare il cucciolo rifiutato da una sua compagna, gli assicurò la sua gratitudine a vita, espressa con abbracci e baci ogni volta che si incontravano.
Neanche la pietà è solo umana. Quando tre rinoceronti furono uccisi dai bracconieri in una riserva privata africana, tre elefanti che da anni pascolavano con loro furono visti piangere e lamentarsi per ore sulle fosse degli amici scomparsi. E che dire della generosità? Molti animali, dai capodogli ai licaoni, allevano i cuccioli in comune, e alcuni arrivano persino ad adottare cuccioli di altre specie, nonostante ciò non aiuti certo la diffusione dei propri geni. E c’è chi va oltre: nelle colonie dei pipistrelli vampiro i più fortunati aiutano quelli rimasti digiuni rigurgitando per loro parte del sangue e, quando una femmina partorisce, un’altra le fa da levatrice pulendola massaggiandola e persino coprendola amorevolmente con le ali.
A smentire l’automatismo degli istinti, poi, ci sono i casi di solidarietà verso i membri svantaggiati del gruppo. Come quella mostrata dai macachi giapponesi verso la compagna Monzu, che nata senza mani e senza piedi, nella “spietata lotta per sopravvivere” avrebbe dovuto soccombere, ma è stata invece tanto assistita dai compagni da riuscire a crescere tre cuccioli.
Infine, ci sono gli atti più inspiegabili ai nostri occhi, quelli cioè di eroismo verso animali di specie diversa, come nel caso del delfino neozelandese Moko, che ha messo a repentaglio la propria vita, avventurandosi fra banchi di sabbia, per guidare verso la salvezza due capodogli nani che vi erano rimasti intrappolati.
Per Bascombe la spiegazione di questi comportamenti è semplice: gli animali sociali sono così empatici e cooperativi da provare, come noi, piacere ad aiutarsi a vicenda, anche a rischio di diminuire un po’ le proprie chance di sopravvivenza. La bontà, in altre parole, non è solo umana. E questo, per lo zoologo americano, pone un quesito scomodo ma fondamentale: se gli animali sono esseri morali, che diritto abbiamo di torturarli e ucciderli? Molti credono che non sentano dolore come noi. “Ma pensare che un animale con un cervello piccolo soffra meno di uno con un cervello grande è un patetico uso della logica” ha detto il biologo John Webster.
Forse è solo un problema di comunicazione, molti animali esprimono lo stress in modi diversi da noi. Nei bovini, per esempio, la sofferenza non si manifesta con urli e pianti, ma nella quantità visibile di bianco nell’occhio. Il momento in cui questo raggiunge la massima esposizione nelle mucche? Quando gli viene portato via il vitello.
tratto da Venerdì di Repubblica del 13.08.10