Lo ZENNon posso affermare che la mia identità sia cristiana; neppure posso sostenere che non lo sia. Non solo, penso che enunciare l’una o l’altra cosa costituisca in ogni caso una distorsione della realtà. Lo stesso vale, naturalmente, per una qualunque forma mentis che pretenda d’essere (o di non essere) buddhista, positivista, atea, razionalista, romantica e che voglia assurgere al ruolo di “identitas”, da “idem” cioè sempre uguale, immutabile.
Inoltre, nel momento stesso in cui mi libero dall’esigenza di affermare un’identità, noto che mi libero anche dal desiderio di negarla. Anzi, sono felice di poter contemplare in me, le molte radici di cui la mia Via spirituale è composta. Una composizione è, infatti, la Via e comporre vuol dire mescolare (da compositum), non rescindere, (da cui decidere). Non occorre quindi decidere quale sia la propria identità, né quale non sia, per percorrere abilmente la propria Via.
Nel vasto spazio che riunisce sia la Via, sia chi la percorre, non v’è ragione di opporre una cosa ad un’altra. Contraria sunt complementa.
Né si può distinguere fra Via e viandante, ché la via si compone, attimo per attimo, sotto i propri passi. Vah (sanscrito) è via e movimento insieme. Il procedere è la via.
"È camminando che si fa il cammino” (Antonio Machado)Nelle parole risiedono significati che restano nascosti nel chiacchierare distratto, ma sono ben presenti nell’inconscio collettivo. È certo che duemila anni di storia hanno un significato profondo in ognuno di noi e nessuno di questo Paese (inteso come insieme culturale) può dirsi avulso dai significanti e dai significati cristiani, neppure dopo aver vissuto anni in una grotta, o da cieco e muto eremita sui monti. La radice di venti secoli è sita profondamente in noi, fin nelle nostre cellule. Ed altre radici più antiche si mescolano con essa, ché siamo sia cristiani sia pagani; alle volte, invero, più simili a quest’ultimi che ai primi. Basta guardarsi attorno a Natale o alle feste “comandate”, per vedere che chi “comanda” è il desiderio di scambiarsi doni ed accedere alle libagioni, tanto che il vero raccoglimento lo sperimentiamo a festa conclusa, quando il silenzio, infine, ritorna e noi restiamo a lui, in solitudine, nuovamente consegnati.
Profondo allora, vibra quel mare infinito, mescolanza priva di parti da tanto le sue onde sono fra loro unità, indistinguibili dall’insieme. Unità che fu prima d’ogni altra cosa e ad ogni cosa sottende ed alla quale non si può dar nome, senza che sia subito smarrita in un concetto; conceptus, cioè concepito, irrimediabilmente nato e perciò finito, destinato ad estinguersi.
L’Inconcepibile, inconcepito, non nato, si può chiamare Nirvana, Tao, Dio; purché si sappia che non è nessuno di questi nomi perché i nomi sono sempre e solo la mente, vale a dire misura. E come si può misurare Quello? Misurare è confrontare e si presume che ciò che si misura sia chiaramente identificabile e de-finito, in modo da conoscerne il rapporto con l’unità della dimensione che si è scelta per il confronto. Identificabile, s’è detto, e questa parola è pure da “idem” come lo è “identità”.
Ecco, se avessi un’identità la potrei misurare ed affermare. Ed ora so perché non ho misura assoluta di ciò che sono, né posso dire, sono così o non sono affatto così, o lo sono tanto oppure poco. Perché non ho identità immutabile e sono io stesso Via in formazione sotto i miei passi.
Upasaka Taebi
da
Bodhidharma.it